OPERAI DEL SOCIALE: LA SOLITUDINE a cura di Lidia

30 marzo 2016 - operai del sociale

È ormai passato molto tempo da quel primo anno in cui ho iniziato a lavorare al Centro Diurno. Allora avevo ventisette anni e praticamente nessuna esperienza in campo sociale.

Avevo finito da poco di lavorare in un altro settore, che non aveva nulla da spartire con il lavoro sociale, ed ero piena di entusiasmo, di buone intenzioni e di energia ma, a parte questo, null’altro.

L’ingresso al Centro Diurno non era stato facile; la situazione che mi si era presentata davanti era quella di un luogo dove i rapporti tra operatori erano molto tesi e, sia i ragazzi sia le attività, erano strumentalizzati per gestire i dissidi interni. Il lavoro svolto aveva quindi perso la sua valenza originaria che, anche nella mia poca esperienza, sapevo dovesse essere quello di accompagnare i ragazzi diversamente abili nel loro percorso di crescita personale, stimolando le abilità residue e permettendogli di acquisirne altre.

Nonostante tutto ero entusiasta di cominciare questo nuovo lavoro che mi ero conquistata con impegno e dedizione, superando per ben tre volte lo stesso concorso che, nelle prime due edizioni, era stato annullato per irregolarità.

Il mattino mi recavo al lavoro con allegria, felice di condividere la mia giornata con quei “ragazzi” che, nonostante la loro disabilità, avevano la capacità di farmi vedere gli avvenimenti da un altro punto di vista.

Fra gli altri ospiti c’era anche lui, che chiamerò Dario. Un uomo di trentasei anni, affetto da autismo, che si era appena trasferito da Torino.

Sicuramente la realtà che stava vivendo in quel momento non era facile: era stato costretto a cambiare abitazione, passando dalla grande città alla campagna, aveva cambiato il Centro Diurno, i compagni, gli operatori… cosa già di per se destabilizzante per ogni persona, che diventa straziante quando si è affetti da una patologia dove i cambiamenti, anche minimi, sono vissuti come fatiche insormontabili.

Oggi, dopo diversi anni di esperienza nel campo sociale, riesco a comprendere le sue fatiche, il suo disorientamento e la sua rabbia ma, in quel momento, le giornate passate al Centro quando lui era presente, per me erano diventate un incubo.

Dal momento in cui arrivava al mattino, cominciava a seguirmi, anzi a perseguitarmi, con le sue domande insistenti e sempre uguali. Non c’era modo di distoglierlo: le domande diventavano sempre più pressanti ed insistenti e, qualunque fosse la mia risposta, finiva sempre per aggredirmi fisicamente. Le mie giornate erano costellate da graffi, sputi e, in alcuni casi, anche schiaffi, che incassavo stoicamente senza neanche provare a difendermi.

Nonostante il disagio fisico ed emotivo la mia prima preoccupazione era quella di tutelare gli altri ragazzi quindi, la maggior parte delle volte mi allontanavo dal luogo delle attività, certa che Dario mi avrebbe seguita, per evitare che gli altri ragazzi dovessero assistere alle crisi del loro compagno.

Nella mia ingenuità ed inesperienza (forse anche con un po’ di arroganza che mi spingeva a pensare che dovevo farcela da sola) non ho mai pensato che qualcuno fosse tenuto a venirmi in aiuto.

E poi, a chi potevo dirlo? A parlarne con i colleghi avevo provato e la loro risposta era stata che Dario voleva stare con me e che loro non potevano impedirglielo. Neanche chiedergli di aiutarmi a preservare la tranquillità degli altri ospiti aveva sortito effetti. Mi dicevano che per me era facile farlo allontanare dagli altri, perché bastava che mi allontanassi e lui mi seguiva. Il messaggio era chiaro: il problema era mio ed io dovevo gestirlo.

Certo, avevamo anche dei momento di supervisione. Peccato che, nei sette anni in cui ho lavorato in quel Centro Diurno siano stati solamente due: il primo lo abbiamo passato a salutare la collega di cui avevo preso il posto (che aveva avuto un altro incarico) e durante il secondo abbiamo salutato il supervisore, che terminava il suo mandato.

Ben presto il “panorama” che mi si presentava davanti mi è stato chiaro: ero sola!

Dopo più di un anno di vessazioni continue da parte di Dario, periodo in cui non ho mai pensato che lui “fosse sbagliato” ma che ero io a dover trovare un modo per rapportarmi ad esso, dopo infiniti mesi in cui costantemente terminavo la settimana piena di croste e di ferite sulle mani e sulle braccia che non riuscivano a rimarginarsi nei due giorni di riposo, dopo aver preso l’abitudine di girare sempre con due pacchetti di fazzoletti di carta per asciugarmi gli sputi, ho deciso che non dovevo permettergli di farmi del male.

Ho smesso di pensare che “sarebbe stato cattivo” fermarlo ed ho cominciato a capire che anche per lui era una sofferenza aggredirmi in continuazione e che bloccare i suoi impeti di rabbia sarebbe stato positivo anche per lui.

Da quel momento ho cominciato a bloccargli le mani quando tentava di graffiarmi. L’ho sempre fatto senza rabbia, ma con fermezza, cercando di far diventare quei momenti come un gioco…e ha funzionato.

Poco per volta le crisi di Dario sono diminuite, la mia nuova sicurezza ha permesso anche a lui di sentirsi più sicuro. I contorni incerti e devastanti delle sue emozioni erano finalmente contenuti da qualcuno che stabiliva dei confini che, da solo, non sarebbe stato in grado di stabilire.

Da quel momento, per tutti gli anni di lavoro in quel Centro, ho continuato ad essere il riferimento affettivo di Dario, che mi cercava e mi seguiva durante la giornata, ma senza più riversare su di me tutta la sua aggressività.

Ora che sono passati più di vent’anni, nonostante abbia smesso di lavorare in quel Centro Diurno da oltre sedici anni, tutte le mattine che arrivo al lavoro il saluto più bello lo ricevo da Dario, che continua a frequentare il Centro situato vicino al mio ufficio.

Nella mia mente è rimasta però una domanda senza risposta: se, nella mia inesperienza non fossi riuscita a trovare da sola una via d’uscita cosa ne sarebbe stato di me e di Dario?

Lidia

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