LIBRI CATTIVI…PERCHE’ E PER CHI? Articolo del collettivo De-Generi

21 dicembre 2015 - Blog

A fine giugno il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro ha stilato un elenco di libri da ritirare da asili nido e scuole per l’infanzia, perché ritenuti «inopportuni»: la decisione di leggerli ai bambini nel contesto scolastico, a suo parere, era frutto di «arroganza culturale» e della volontà di imporre, in un contesto inadeguato, una specifica visione della società. (Leggi la dichiarazione del Sindaco). Successivamente i testi che trattano temi quali la «discriminazione fisica, religiosa e razziale» sono stati presi nuovamente in considerazione, ma non i testi riguardanti, più o meno da vicino, tutto ciò che ha a che fare con il concetto di “genere”. Si tratta di libri che presentano una pluralità di modelli famigliari, compreso quello omogenitoriale ma non solo: vengono raccontate le storie di famiglie con una sola figura genitoriale, in cui i figli sono stati adottati, in cui i genitori hanno origini diverse oppure la figura della madre e quella del padre non rispecchiano i modelli tradizionali (ad esempio, padri caratterizzati da una dimensione emotiva molto marcata, distante dall’immagine dell’uomo “virile”). E ci sono libri che mettono in luce la possibilità, per bambine e bambini, di avere sogni, passatempi o modi di fare che non sono necessariamente quelli che vengono associati al comportamento tipico di “femmine” e “maschi”: bambini che desiderano diventare ballerini, bambine che assumono il ruolo del principe coraggioso.

In tutta Italia sono sorte numerose iniziative spontanee in risposta a questa presa di posizione, ultima delle quali domenica 13 dicembre, con la manifestazione “Chi ha paura del libro cattivo?”, promossa dall’Arci e diffusa in tutto il territorio.

Noi De-Generi abbiamo partecipato, leggendo pubblicamente alcuni dei libri in questione, in compagnia di bambini, famiglie e amici: questa occasione ci ha dato modo di riflettere e di interrogarci sulle ragioni della (purtroppo) crescente e ostile preoccupazione nei confronti delle “tematiche di genere” in particolare nei contesti educativi.

Perché questi libri fanno paura? Perché parlare di genere fa paura? Perché è ritenuto pericoloso, soprattutto, parlarne con bambini e ragazzi?

Nel romanzo fantastico L’altro mondo ovvero Gli stati e gli imperi della luna di Cyrano de Bergerac, un abitante della Luna fa notare al protagonista (catapultato in un mondo “altro”) quanto sia bizzarro che sulla Terra sia considerato sconveniente parlare di ciò che è simbolo di incontro, unione, vitalità (come gli organi riproduttivi) e invece le armi e la forza siano oggetto di onore e merito: «Sfortunato paese, in cui i simboli della procreazione sono oggetti di vergogna e sono in onore quelli della distruzione».

La paura di affrontare le questioni di genere apparirebbe all’abitante della Luna una paura infondata, poiché nasce in reazione a qualcosa che in realtà non ha nulla di nocivo.

Proviamo a ribaltare la domanda, e chiediamoci che cosa può trasmettere un progetto educativo basato, ad esempio, sui libri “incriminati” e su una problematizzazione delle tematiche da questi affrontate:

rispetto dell’alterità: mostrare ai bambini che sono possibili differenti modi d’essere, di mostrarsi, di comportarsi, differenti modelli famigliari, differenti aspirazioni personali, insegna a familiarizzare con l’idea di “altro”, “diverso da sé”, che non solo può essere accettato, ma può essere compreso e apprezzato;

valorizzazione dello scambio: una volta compresa la differenza, si impara che è possibile interagire con essa, che si può comunicare anche con chi non è identico a noi. Il dialogo, la negoziazione, la possibilità di confrontarsi anche in assenza di totale accordo o somiglianza sono strumenti fondamentali per la formazione di un individuo capace di ascoltare prima di giudicare, di mediare là dove necessario, di vivere la propria libertà in armonia con quella degli altri;

presa di coscienza della possibilità di costruirsi la propria identità, di scegliere, di darsi una forma e di non darsi “per scontati”, di ridefinire i propri ruoli e non pensare che si debba per forza adeguarsi a un certo comportamento, solo perché ritenuto connaturato al proprio sesso. La possibilità di sperimentarsi, di definirsi in base a stimoli differenziati e non univoci permette di diventare individui consapevoli, che non solo sono ciò che vogliono, ma vogliono ciò che sono.

Ora possiamo provare a rispondere alla domanda iniziale: a livello individuale, nell’intimo delle persone più spaventate e meno disposte al confronto, e più soggette quindi a una disinformazione che aumenta il timore della differenza, forse trasmettere questi messaggi fa paura perché mette di fronte all’impossibilità di inserire tanto noi stessi quanto coloro che ci circondano in categorie definite, comode, sicure, che non mettono in discussione: ma se si guarda con attenzione alla quotidianità di ciascuno, sono davvero “reali” queste categorie? O sono solamente etichette, come le risposte dei questionari in cui non ci riconosciamo mai completamente? E, soprattutto, incasellare gli individui in tali categorie è una garanzia di benessere, sia individuale sia relazionale?

Allargando lo sguardo oltre il piano individuale si potrebbe avanzare l’ipotesi che il radicamento di alcune categorie lascia inalterati alcuni modelli e forme istituzionalizzate di comportamento: tali modelli permettono la riproduzione di una società che, in mancanza di interventi e appoggi statali volti al benessere della cittadinanza, fonda le sue basi sul nucleo famigliare inteso in ottica tradizionale, che diventa riparo e sostegno alle difficoltà e che non può essere scardinato, pena una frantumazione della società stessa che non saprebbe dove altro attingere le sue risorse.

Ma è davvero la famiglia a dover reggere la struttura della collettività, prendendosi carico, ad esempio, delle fasce più fragili della popolazione (come gli anziani o i giovani disoccupati), o non dovrebbe essere piuttosto un adeguato sistema di politiche pubbliche? E in ogni caso, anche in assenza di risorse statali sufficienti, non è possibile immaginare una società in cui tra gli individui esistano reti di supporto che non siano fondate esclusivamente sul sangue o sulla famiglia “tradizionale”?

In un contesto simile (che noi riteniamo non solo possibile e auspicabile, ma che esiste già, e che si sviluppa ogni giorno nella società civile anche in assenza di appoggi istituzionali) è naturale stimolare nei bambini e nei ragazzi dubbi, riflessioni, domande, in modo che siano capaci di interrogarsi sulla realtà in cui vivono; in modo che possano essere consapevoli che esistono persone diverse da loro, ma non così tanto diverse da non poter avere un dialogo, un confronto, o addirittura una relazione di reciprocità; in modo da potersi accettare e amare se scoprono, nel venire a conoscenza di molteplici possibilità d’essere, di potersi definire in una forma più affine al loro sentire.

Queste sono riflessioni che ci toccano non soltanto se ci troviamo in un contesto educativo, ma anche, e forse soprattutto, se abbiamo l’intenzione di educare noi stessi.

Collettivo De-Generi

Uno spazio albese di confronto e incontro per abbattere stereotipi e pregiudizi e ricordarci che siamo tutti differenti, ma tutti uguali.